I conti con Basaglia


1.

In un articolo precedente (Legge 180 XXX anni) ho cercato di analizzare il punto di vista del movimento basagliano sull’attuale situazione psichiatrica. In calce all’articolo ho fatto cenno anche ad un’intervista di Giovanni Jervis a riguardo, che anticipava l’uscita di un suo libro. Il saggio (La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati Boringieri, Torino 2008), firmato anche da Gilberto Corbellini, è di fatto uscito. Non l’ho letto e non lo leggerò, perché penso che avrei poco da aggiungere a quanto detto nell’articolo precedente. Analizzare il fuscello nell’occhio dell’antipsichiatria degli anni ‘70 e minimizzare la trave che acceca e rende disumana la pratica psichiatrica corrente può darsi che sia una pratica razionale: di certo non è molto ragionevole, né dialettica, e comunque si pone ad una distanza abissale dalla storia e dalla realtà sociale.

Naturalmente il movimento basagliano ha reagito con estrema durezza all’attaco di Jervis, formulando un documento che è una risposta corale. Il testo è il seguente:

“I NOSTRI CONTI CON BASAGLIA

Nell’ultimo libro di Giovanni Jervis e di Gilberto Corbellini e nelle interviste su alcuni quotidiani che promuovono l’uscita del libro, si esprimono giudizi severi sul movimento antistituzionale italiano e sulla riforma psichiatrica del 1978.

Tali critiche da parte di Jervis non sono nuove, ma la loro ripresa appare in sintonia con l’attuale revisionismo contro il movimento del ’68 e contro l’epoca delle riforme. D’altra parte Jervis si trova spesso in compagnia con idee conservatrici – la sua critica al relativismo scientifico, ad esempio, si allinea in buona parte a quella espressa dal prof. Pera e dal prof. Ratzinger sul relativismo culturale.

Non è il caso di entrare nel merito di tali analisi, se non facendo presente come questo orientamento abbia un preciso riferimento al presente, in quanto cerca di attribuire a quel periodo, certamente contraddittorio e parziale, ma indubbiamente promotore di forti istanze di libertà e di emancipazione, la responsabilità di un influsso nefasto sulla cultura e sui comportamenti delle persone. In un clima sociale di insicurezza, l’attribuzione del disordine e del disagio a istanze di libertà e di giustizia, presenti e passate, è congeniale a un progetto repressivo della società.

Non ci sembra nemmeno il caso di contrastare le pesanti critiche personali rivolte a Franco Basaglia da Jervis. Tali critiche vogliono comprovare la povertà morale del personaggio e affermare di conseguenza il discredito del suo operato. Ognuno ha naturalmente diritto a sostenere le proprie idee e noi non pretendiamo di ”santificare” il personaggio-Basaglia, né di reclamarne l’agiografia. Ma poiché Jervis, da quarant’anni ormai, si è posto in modo ostile verso Basaglia, polemizzando pubblicamente con le sue scelte, è difficilmente credibile ogni suo tentativo di collocarsi in una sorta di distaccata neutralità, specie se narra episodi privi di oggettivi riscontri. Jervis usa la tecnica consumata del gossip: dichiara preliminarmente rispetto per la controparte in modo che le successive velenose critiche, formulate quasi controvoglia, siano avvalorate proprio dalla buona disposizione dell’autore. In ogni caso ogni giudizio sulla vita privata di una persona costituisce sempre una grave caduta di tono e diventa inqualificabile se l’interessato è scomparso e non può più controbattere. A un certo punto sorge anche il legittimo dubbio che le interviste sui giornali o alla radio, i dibattiti su Basaglia, come quello tenuto a Lodi da Jervis sul tema dell’”Invidia”, vogliano dar lustro all’autore contrapponendolo a un personaggio celebre e facciano parte di una tecnica pubblicitaria. Dare vita alle polemiche rischia pertanto di fare il gioco di questa strategia… E tuttavia non possiamo non intervenire contestando come falsa l’etichetta di “antipsichiatra”, che Jervis attribuisce a Basaglia. Probabilmente Basaglia non avrebbe speso nemmeno una parola per difendere la sua identità, considerandolo un ozioso dibattito. Ma la questione, per noi, merita una riflessione, perché non è forse del tutto accademica e si inscrive nel tentativo più complesso di liquidare la riforma psichiatrica, attribuendo ogni sua difficoltà non al modo con cui è stata ed è governata, quanto piuttosto a una sorta di peccato originale – l’antipsichiatria -, che finalmente potrà essere corretta ed eliminata.

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Naturalmente per noi essere definiti antipsichiatri non costituisce un’offesa! L’antipsichiatria nel panorama degli anni 60 ha costituito un pensiero positivo, ricco di aspirazioni emancipatrici, ed è servito per squarciare il mondo oppressivo della psichiatria tradizionale. Ma le differenze tra il pensiero antipsichiatrico e il pensiero-azione antistituzionale di Basaglia, la differenza fra la deospedalizzazione e la de istituzionalizzazione sono state evidenti fin dall’inizio.

Il rifiuto di Basaglia di essere considerato un antipsichiatra è sempre stato categorico e inequivocabile. Gorizia era nata nel ’61, molto prima del successo dell’antipsichiatria, e i punti di riferimento scientifico-culturali dei due pensieri erano profondamente diversi e soprattutto diversi sarebbero stati i loro sviluppi. Jervis non nega tutto ciò, riconosce il valore di Gorizia (naturalmente nel periodo in cui lui era presente) e afferma che l’involuzione antipsichiatrica di Basaglia avviene successivamente, negli anni ’70, quando Basaglia si appiattisce sul pensiero di un cattivo maestro – Michel Foucault - e quando considera la malattia mentale solo come una devianza sociale.

Per Jervis Basaglia è sostanzialmente autoritario, dominato dal massimalismo e dalla ideologia, anche se si mostra paradossalmente plagiabile dai suoi collaboratori e asservito alle logiche del partito comunista. Basaglia in quegli anni insegue giochi di potere, è sempre più avulso dalla pratica, specie quella dei servizi territoriali, dove si va affermando invece un sano ritorno alla clinica tradizionale. L’emblema del fallimento di Basaglia è per Jervis la creazione e la storia di Psichiatria Democratica…

Leggendo questa ricostruzione degli avvenimenti si è presi da un senso di sbigottito stupore e viene da chiedersi quale film abbia mai visto Jervis? Poiché il suo film non è certamente quello visto da chi faticosamente lavorava in quegli anni all’interno della psichiatria pubblica.

E in effetti Jervis non era più presente, poiché aveva scelto di tirarsi fuori dal sistema sanitario pubblico. Nella sua analisi dà l’impressione, a voler essere generosi, di essere rimasto fermo all’inizio degli anni ‘70, quando fa un bilancio negativo sulla possibilità di realizzare a Reggio Emilia una psichiatria alternativa, svuotando il manicomio dall’esterno. In quell’occasione entra in una crisi politica, personale e professionale - come lui stesso dichiara - che lo porterà a scegliere la carriera universitaria. E’ disorientato dal velleitarismo dei giovani, dalla rigidità delle istituzioni politiche e dei loro apparati e considera l’irrazionalità e l’ideologia dominante profondamente deleterie per il bisogno di cura del malato mentale.

Senza dubbio in quegli anni esisteva un certo rischio di cadere nel velleitarismo, nell’ingenuità, nel sociologismo assistenziale. Ma questo rischio si riduceva significativamente quando l’agire si misurava nella deistituzionalizzazione, a cui Basaglia dava concretezza a Trieste e altri in differenti contesti. In questi casi il lavoro quotidiano rendeva evidente come, smontando l’apparato istituzionale che gestiva l’artefatto-malattia, emergesse la soggettività del paziente, la sua sofferenza individuale e quella derivante dal suo contesto sociale. Questa “scoperta” richiedeva l’aderenza ai bisogni del paziente, imponeva di rispondere alla sua sofferenza, senza mistificazione.

Basaglia non ha voluto trasformare, delineando solo i fini e minimizzando i mezzi: per lui era il “come”, l’”oggi”, il “per chi”, era la concretezza della pratica, che dava senso alle parole. L’impeto dell’utopia, la tensione critica si sono sempre misurate in lui responsabilmente con un soggetto, che – come era solito dire - non era un’astrazione, la malattia, quanto piuttosto una persona, il malato.

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Contrariamente a quanto asserisce Jervis, Basaglia ha applicato il metodo della sospensione del giudizio - l’epoché di Edmund Husserl – secondo cui il cambiamento diventa possibile solo nella interruzione del tempo, nella possibilità che il pensiero pensi con la forza del negativo e dell’impossibile. Basaglia, per liberare la voce della follia, ha imposto il silenzio alla scienza.

La malattia mentale è stata messa tra parentesi per consentire, a chi era ritenuto incapace, di poter esprimere i propri bisogni e la propria soggettività. Basaglia non ha voluto giocare con le parole: ha cercato di dar voce al “contenuto trasformato”, secondo il pensiero di Karl Marx. Ha rifiutato di parlare al posto dei pazienti, di ergersi a paladino dei loro bisogni, interpretandoli, dando loro nuovi contenuti. Mantenendo la disponibilità all’ascolto ha consentito l’emergere di un nuovo modo di relazionarsi e ha permesso di capire ciò che prima era impedito. Erano i pazienti che dovevano esprimersi: loro dovevano diventare i veri protagonisti della cura!

La dimostrazione della ragionevolezza di quel pensiero è oggi sotto i nostri occhi: è la straordinaria vitalità dei movimenti degli utenti, dei familiari, l’auto-mutuo-aiuto, il recovery. Si obietterà che alcuni di questi movimenti si sono sviluppati nella cultura anglosassone degli anni’ 80. E’ vero, ma bisogna considerare che un certo ritardo nel riconoscimento delle esperienze italiane dipende anche dalla egemonia internazionale della letteratura scientifica inglese. E comunque questo nuovo modo di intendere la cura e la malattia – anglosassone o italiano che sia - affonda le sue radici nei movimenti dei diritti civili degli anni’ 60 e ’70 e ha certamente trovato un riferimento significativo nelle esperienze italiane di deistituzionalizzazione. L’aver intaccato radicalmente l’idea della cronicità e della irrecuperabilità del paziente psichiatrico ha costituito il terreno su cui si è potuta sviluppare l’idea del recovery.

La presenza di questo orientamento rappresenta la testimonianza tangibile che è stato giusto mantenere aperte le contraddizioni e non imporre una teoria di ricambio. Ed era questa la prospettiva in cui si sono mosse, in quegli anni ’70, Trieste e le numerose esperienze che Jervis dimentica di citare – Arezzo, Città di Castello, Ferrara, Genova, Napoli, Parma, Perugia, Pordenone, Torino e certamente anche Reggio Emilia. Dalla loro esperienza e dal ricco apporto delle altre successive esperienze si è venuto definendo il nuovo paradigma della malattia mentale e della cura.

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Distruggendo l’istituzione e sospendendo il discorso scientifico sulla malattia mentale, i nodi del potere e del sapere, in verità, non sono stati sciolti per sempre: sono solo stati allentati. “La distruzione dell’OP, in sé stessa,- diceva infatti Basaglia - non significa nulla. E’ tuttavia la condizione che può far emergere, finalmente, la questione psichiatrica”. La psichiatria tradizionale si è ritrovata spiazzata: una falla si è aperta nella intersezione tra potere e sapere, tra le pratiche e le teorie. Le conoscenze, i saperi tradizionali però non son stati rifiutati o gettati via. Nel nuovo contesto liberato i saperi hanno assunto una pregnanza diversa, anch’essi sono stati “liberati”, sono diventati patrimonio di nuovi protagonisti. Le conoscenze tradizionali si sono arricchite, quando si sono confrontate con quelle che scaturivano dalle esperienze di de istituzionalizzazione.

Caratteristiche fondanti di tali esperienze sono state, sia la messa in crisi di due fondamentali paradigmi clinici - quello fondato sugli antagonismi e quello basato sul principio problema/soluzione - , che il passaggio dal percepirsi del paziente al suo realizzarsi. Non è stato negato infatti il valore dell’inconscio, né della presa di coscienza del soggetto; è stato valorizzato l’esercizio del potere personale (bene primario della persona), il riconoscimento della contrattualità sociale, la pratica dei diritti di cittadinanza, la costruzione e l’invenzione di fattive possibilità di fruire e di produrre. Prendersi cura del paziente ha significato la progressiva modifica dello statuto sociale dell’utente - da malato a cittadino portatore di sofferenza – e ha prospettato un modo altro di fare terapia. Ha proposto una metodologia innovativa basata sull’invenzione di strategie indirette, sulla messa in opera progressiva della rinuncia a ogni soluzione ottimale, sulla convivenza con contraddizioni logiche e pratiche, sulla capacità di mettere a frutto la propria competenza del residuo, producendo un’esperienza cognitiva sulla produttività della incertezza, delle contraddizioni, del non equilibrio.

In sostanza considerare tutto ciò antipsichiatria e definire Basaglia un antipsichiatra costituisce una forzatura ingenua e faziosa. Il pensiero di Basaglia deve essere ricondotto piuttosto all’interno di una più vasta analisi epistemologica, che interessa le scienze umane, ed è parte di una più generale rivoluzione simbolica del pensiero.

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Dal successo delle esperienze di rovesciamento istituzionale, dal successo della esperienza di Trieste, che ha chiuso il manicomio e ha costruito una rete di servizi sul territorio, è nato quell’ampio consenso di cittadini e di tecnici che ha reso possibile la promulgazione della legge di riforma. E’ logico che le leggi vengano presentate al parlamento dai politici – in questo caso da Bruno Orsini – e che siano frutto di mediazioni ed è anche risaputo Basaglia avrebbe preferito altre formulazioni. Ma Basaglia ha fatto propria quella legge e perciò la 180 giustamente è riferibile a lui: esprime il suo realismo, la sua capacità di dare concretezza e solidità ai processi, secondo una strategia di ricerca dell’egemonia nella democrazia. “Non dobbiamo vincere – diceva Basaglia - dobbiamo solo convincere!”

Jervis sorvola sugli autorevoli riconoscimenti nazionali e internazionali nei confronti della legge e del movimento antistituzionale, omette di menzionare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha scelto le esperienze basagliane come suoi centri accreditati, omette di ricordare che la maggior parte dei paesi – e anche quelli di lingua anglosassone – si sono mossi, a partire dagli anni’ 80, nel solco tracciato dall’esperienza italiana. Non cita la ricca letteratura a favore delle esperienze e imputa a Basaglia il rifiuto, per partito preso, di promuovere la formazione degli operatori psichiatrici e di conseguenza gli imputa le difficoltà in cui si trovano oggi gli operatori. Queste critiche ricordano la storia di colui che scambia il proprio dito indice con la luna a cui il dito è invece rivolto. In realtà è proprio il mondo deputato alla formazione – l’Università - che è rimasto chiuso ai cambiamenti. Sono proprio i gestori del potere universitario, anche se con debite eccezioni, che si sono dimostrati incapaci di cogliere la rilevanza dei processi occorsi, che sono rimasti subalterni alla psichiatria americana e che hanno permesso una certa deriva professionale degli operatori psichiatrici.

Basaglia avrà avuto certamente dei limiti, avrà commesso degli errori, come ciascuno essere umano, ma ha avuto ragione in molte occasioni. L’ha avuta quando ha ritenuto che l’unica strategia possibile per il cambiamento fosse decostruire prima di tutto il manicomio, arrivando alla sua effettiva chiusura, senza fughe in avanti; ha avuto ragione quando con il successo della de istituzionalizzazione avrebbe potuto proporre nuove teorie e invece ha rilanciato l’esigenza di oltrepassare la proposta politica, andando alla socializzazione della questione psichiatrica; ha avuto ragione non anteponendo la sua voce a quella dei pazienti, consentendo la presa della parola da parte di chi ne era sempre stato privato; ha avuto ragione quando nel pieno del successo ha rifiutato di andare all’Università, preferendo con coerenza di rimanere nella trincea del sistema sanitario per affrontare le contraddizioni della pratica. Ma Basaglia ha soprattutto dimostrato che la trasformazione è possibile, quando il pensiero pensa con la forza del negativo e dell’impossibile e si accompagna al coraggio della determinazione e della coerenza. Altri soggetti di fronte alle difficoltà, alle contraddizioni della pratica si sono arresi al pessimismo della ragione; lui invece è andato avanti sorretto dall’ottimismo della volontà.

Nell’intervista a Jervis su Repubblica del 4 settembre si parla de ”I miei conti con Basaglia”. Non sappiamo se Jervis abbia finalmente saldato i suoi conti con Basaglia (per la sua salute e per la nostra glielo auguriamo!) Ma noi no! Noi non abbiamo saldato i nostri conti con Basaglia. Franco ci manca e noi continuiamo a pensare a lui, alla sua lucidità, al suo coraggio. E proprio in questo momento difficile noi vogliamo continuare a fare i conti proprio con il suo richiamo all’ottimismo della volontà, con il suo richiamo all’etica della responsabilità personale, al dover essere per sé, per meglio essere e per fare per gli altri.

Ernesto Venturini

Sottoscrive il gruppo dei “goriziani”: Agostino Pirella, Domenico Casagrande, Lucio Schittar, Antonio Slavich, Nicoletta Goldschmidt, Bruno Norcio, Vincenzo Pastore, Renato Piccione, Paolo Serra

Settembre 2008

2.

La risposta è impeccabile per quanto riguarda l’astio implicito nella critica di Jervis, e fors’anche eccessiva laddove essa ritorce contro l’autore l’attribuzione a Basaglia di una smodata ambizione personale. Non ho elementi per valutare l’ambizione di Basaglia e quella di Jervis (pur ritenendo, eventualmente, la prima più fondata dell’altra). Di sicuro però il ruolo storico e la fama internazionale acquisiti dal primo possono avere promosso non poche invidie nei colleghi che ritenevano o ritengono di non valere da meno. Che Jervis sia tra costoro è un sospetto legittimo, ma non una certezza. Come ho già scritto, il suo valore di intellettuale, indubbio anche se limitato ad una cultura molto ricca ma priva di creatività scientifica, è stato fin troppo gratificato da una carriera accademica e pubblicistica, che, di fatto, non ha riconosciuto alcun acuto che lo consegnerà alla storia della psichiatria e della psicopatologia.

Non è la querelle tra Jervis e il movimento basagliano, però, che qui interessa, bensì il documento riportato, che stila un bilancio sostanzialmente trionfalistico della legge 180, già evidente nel numero unico della Rivista Fogli di Informazione dedicato alla ricorrenza del trentennale.

Il documento, come peraltro il numero unico della Rivista, rappresentano un commosso ed autentico omaggio a Basaglia. Si tratta però di un omaggio agiografico che, eccezion fatta per il rilievo che egli “avrà avuto certamente dei limiti, avrà commesso degli errori, come ciascuno essere umano”, sottolinea la validità di tutte le sue scelte teorico-pratiche, compresa l’epoché di matrice fenomenologica, vale a dire la messa tra parentesi della “follia” in riferimento alla sua natura, alla sua causalità e alle dinamiche psicopatologiche che la sottendono.

Ho già scritto che questa scelta basagliana va storicizzata. All’epoca in cui l’obiettivo era la deistituzionalizzazione di pazienti più o meno gravemente danneggiati dalla permanenza in manicomio, non avrebbe avuto senso discriminare, nella loro patologia, ciò che si poteva ricondurre alla loro storia interiore, familiare e sociale e ciò che andava ricondotto all’istituzionalizzazione.

Lavorare sulle condizioni oggettive dell’esistenza, mettere i pazienti in una nuova situazione rispettosa dei loro diritti e della loro dignità, era l’unico modo per verificare la risposta al cambiamento. Sotto questo profilo, il principio dell’epoché ha avuto indubbiamente un riscontro estremamente positivo. Pazienti cristalizzati nel loro dolore e nella loro rabbia, sono tornati a vivere, a muoversi, a comunicare, ad interagire, ad esprimere desideri, ecc.

La deistituzionalizzazione ha dimostrato in maniera indubbia che una vasta sintomatologia comportamentale che la psichiatria attribuiva all’attività di una malattia endogena, in realtà era l’effetto dell’interazione con un ambiente patologizzante e disumano. Questa dimostrazione pratica, che ha restituito umanità ad un numero indefinito di pazienti, si può ritenere un’acquisizione permanente sulla dipendenza della soggettività dalle condizioni ambientali.

Il rischio implicito nella lotta antistituzionale era legato al trasferimento di tale acquisizione sul territorio, vale a dire alla sua estensione all’intero ciclo di vita dei soggetti, alla assunzione, insomma, della società - mutatis mutandis - come un’istituzione totale.

E’ fuor di dubbio che l’analisi sociologica e politica della condizione dei pazienti istituzionalizzati poteva e doveva, in qualche misura, essere applicata alla produzione sociale del disagio psichico, e cioè al farsi e disfarsi dell’uomo nell’interazione con l’ambiente storico e culturale. Con i suoi criteri normativi, le sue esigenze funzionali e il suo bisogno di coesione identitaria, ogni società di fatto è un’istituzione “totale”, nella misura in cui tende ad integrare e ad omologare ciascuno dei suoi membri e a promuovere l’emarginazione di coloro che stentano ad adattarsi alle sue regole.

Trasferire d’emblée la logica antistituzionale adottata all’interno del manicomio sul territorio ha comportato, però, due nefaste conseguenze.

La prima è stata quella di dare per scontato la genesi prevalentemente sociale del disagio psicopatologico e quindi di demandare la sua soluzione completa - la “guarigione” - ad una ristrutturazione radicale della società e delle sue istituzioni. Nell’immediato, questo orientamento ha promosso una presa in carico totale dei pazienti nell’intento di aiutarli a vivere “con la malattia” e una tendenza a tutelare i loro diritti operando una continua pressione sullo Stato assistenziale al fine di disporre di denaro da investire in sussidi, case-famiglia, allestimento di laboratori professionali, costituzione di cooperative, ecc.

E’ difficile misconoscere la valenza umanitaristica di tale presa in carico, che ha indubbiamente modificato positivamente l’esistenza di molti pazienti. E’ però ingenuo non capire i limiti di tale strategia.

Limiti economici, anzitutto, perché la diffusione a livello nazionale del modello “triestino” avrebbe imposto e imporrebbe allo Stato un’erogazione immensa di risorse sottratte ad altre categorie bisognose per quanto non disagiate psichicamente in senso proprio: studenti, famiglia, disoccupati, ecc. Non meno importanti, però, sono le influenze psicologiche di tale strategia. Se è vero, infatti, che alcuni pazienti hanno raggiunto, in virtù di essa, una notevole autonomia, non lo è meno che molti hanno sviluppato una dipendenza interminabile dai Servizi, e alcuni sono regrediti in una forma di assistenzialismo passivo.

La seconda conseguenza, più seria, consiste nell’aver avallato l’ideologia secondo la quale il disagio psichico è espressione solo di interazioni sociali inadeguate in rapporto ai bisogni dei soggetti, e dunque va “curato” attraverso interventi interpersonali e ambientali.

Non parlo per caso di ideologia, termine che faceva rabbrividere Basaglia perché lo identificava con l’astrazione teorica o la mistificazione. All’ideologia, egli opponeva la praxis in senso marxiano, vale a dire l’impegno quotidiano sul registro dell’umanitarismo, dell’assunzione dell’uomo come fine e non come scopo.

Trasposta a livello territoriale, tale opposizione ha mostrato i suoi limiti. In Ospedale psichiatrico i pazienti erano aggregati in padiglioni affollati e fatiscenti. Partendo da questa condizione di aggregazione alienata, è risultato semplice trasformarla in una situazione comunitaria, che aveva il suo massimo momento di interazione nell’Assemblea.

Sul territorio i pazienti sono disaggregati, vivono in genere in nuclei familiari separati tra loro, e non gradiscono più di tanto il contatto con altri pazienti. Ciascuno di essi, peraltro, si misura con un mondo interiore attraversato da sintomi, vissuti e fantasmi che rappresentano senz’altro l’espressione della loro storia relazione e interiore, ma in parte sono interiorizzati in rapporto alle matrici sociali che li hanno prodotti, in parte sono vissuti dai soggetti stessi come fattori di disturbo destorificati.

Sul territorio, insomma, il problema dell’oggettività e della soggettività si è posto e si pone in termini più complessi rispetto a quanto accadeva in Ospedale psichiatrico.

L’ideologia basagliana, per molti aspetti, è rimasta ferma alla teoria della coscienza come prodotto sociale, vale a dire come rispecchiamento delle condizioni oggettive, e, in conseguenza di questo, al rifiuto di considerare la soggettività come espressiva di un mondo interiore senz’altro riconducibile alla storia sociale del paziente, ma strutturato da dinamiche attestanti anche un’elaborazione delle circostanze oggettive spesso sbagliata.

Non è un caso che il movimento basagliano abbia accolto, nella sua pratica teorica, le suggestioni della teoria comunicativa dei sistemi, ma abbia pervicacemente rifiutato di tenere conto del patrimonio psicodinamico. Di psicoanalisti, nel movimento, ce ne sono stati sempre pochi. Evidentemente non sono mai riusciti a far capire che l’identificazione della psicoanalisi con una disciplina che esplora i fantasmi intrapsichici come frutto di distorsioni interpretative è, ormai, quasi priva di fondamento.

Ciò che la psicoanalisi (almeno come io la intendo) ha scoperto è che il disagio psichico riconosce matrici ambientali che vengono però elaborate dal soggetto e producono una strutturazione del mondo interno che, particolarmente a livello inconscio, oppone, a livello adulto, una straordinaria resistenza alle influenze ambientali.

Uno dei misteri dell’apparato mentale umano è, per l’appunto, la sua estrema influenzabilità in fase evolutiva e la sua tendenza conservatrice dopo la fase evolutiva, che comporta una relativa non influenzabilità.

Su questo passaggio si giocano spesso i destini delle persone che sviluppano conflitti psicodinamici.

La pratica basagliana trascura o quasi questo aspetto. In conseguenza di questo essa si limita a valorizzare e a potenziare la parte “sana” del soggetto al fine di compensare quella “malata”. E’ insomma, paradossalmente, una pratica adattiva, sicuramente rispettosa dei diritti e dei bisogni delle persone, sottesa da un afflato umanitaristico di grande significato e animata dall’utopia di una rivoluzione sociale e culturale di là da venire.

Dico questo con una certa tristezza, e da un’angolatura che ben poco ha a che vedere con il sottile disprezzo espresso da Jervis.

E’ difficile non riconoscere l’impegno sociale, politico, culturale e assistenziale di molti basagliani. Rimane il fatto che la legge 180 è una aurea cornice alla quale manca ancora l’essenziale: una teoria integrata del disagio psichico che ne spieghi la sua multidimensionalità e consenta di prevenirlo, laddove possibile, o di intervenire su di esso con una strategia articolata su più piani, che, però, non deve ignorare la complessità del mondo interiore umano e la sua strutturazione non comprensibile solo in termini sociogenetici.

Se non si capirà che l’epochè fenomenologica adottata da Basaglia è ormai fuori del tempo, perché essa implica il riferimento ad una faccia reale del disagio psicopatologico destinata a poter essere valutata solo quando l’organizzazione sociale sarà pienamente rispondente ai bisogni umani (come a dire, mai in una prospettiva storica a medio termine), l’assistenza territoriale si configurerà come una fatica di Sisifo che, alla fine, come già sta accadendo, piegherà anche gli operatori dotati delle migliori intenzioni, e porterà alla resa nei confronti della gestione prevalentemente psicofarmacologica del disagio psicopatologico.

I tempi, insomma, sono maturi per una teorizzazione adeguata all’oggetto in questione. Se si vuole mantenere un nesso con il passato, occorre recuperare l’intuizione più profonda dell’antipsichiatria, peraltro di matrice psicoanalitica: quella secondo la quale la differenza tra la normalità (almeno per gran parte di essa) e la patologia psichica sta nel fatto che la prima è una condizione di alienazione rimossa e compensata (bene o male), mentre la seconda, con il suo stesso manifestarsi, attesta, almeno nella maggioranza dei casi, una spinta verso un modo di essere autentico che il soggetto deve essere messo in grado di capire e di realizzare.